Giacomo Leopardi e il progetto delle "Opere"
2.8. Le "Operette morali": introduzione all’opera
Le Operette morali sono composte da 24 componimenti in prosa.
Perché si chiamano Operette morali? Nel titolo l’autore mette insieme il tono serio e quello satirico che caratterizzeranno il libro. Il diminutivo ricorda l’attenuazione del genere morale antico (si pensi a Isocrate, le cui orazioni Leopardi aveva volgarizzato sotto il nome di Operette morali), è l’espressione di una “leggerezza apparente” del libellus catulliano. Le Operette prendono anche il titolo dal messaggio pratico che trasmettono, suggerendo un rimedio umile (per quanto paradossale) agli effetti della società moderna e della verità. E sono “morali” perché sono evidenti le finalità di intervento, la natura di filosofia pratica, il commisurarsi della critica e dell’analisi a una situazione politico-morale storica, e concretamente italiana.
La preoccupazione per la filosofia morale attraversa quasi tutta l’opera leopardiana: dalle precocissime dissertazioni filosofiche, una parte consistente delle quali porta per l’appunto il titolo di Dissertazioni morali, ai pensieri zibaldoniani destinati al progetto, mai portato a termine, di un Manuale di filosofia pratica, senza tralasciare i Disegni letterari, tra i quali figurano interessanti, benché mai realizzati progetti come «Morale in versi, o poema didascalico sulla morale», «Galateo morale», «Orazioni morali: cioè Prediche e panegirici senza Scrittura e senza teologia».
Eppure nello Zibaldone nel 1820 dirà:
La morale è una scienza puramente speculativa, in quanto è separata dalla politica: la vita, l’azione, la pratica della morale, dipende dalla natura delle istituzioni sociali, e del reggimento della nazione: ella è una scienza morta, se la politica non cospira con lei, e non la fa regnare nella nazione. Parlate di morale quanto volete a un popolo mal governato; la morale è un detto, e la politica un fatto […] (Zib. 311, 9 novembre 1820).
La disgregazione della base politica e la modernità hanno rinnegato la virtù, e lo si legge sin dall’apertura delle Operette, nella Storia del genere umano:
[Giove] mandò tra loro alcuni fantasmi di sembianze eccellentissime e soprumane, ai quali permise in grandissima parte il governo e la potestà di esse genti: e furono chiamati Giustizia, Virtù, Gloria, Amor patrio e con altri sì fatti nomi.
Allora, in un momento in cui la morale sembra essere morta, perché Leopardi le dedica un libro?
Quanto l’uomo sia invincibilmente inclinato a misurar gli altri da se stesso, si può vedere anche nelle persone le più pratiche del mondo. Le quali se, p. e. sono fortemente morali, per quanto conoscano, e sentano e vedano, non si persuaderanno mai intimamente che la moralità non esista più, e sia del tutto esclusa dai motivi determinanti l’animo umano. Lo dirà ancora, lo sosterrà, in qualche accesso di misantropia arriverà a crederlo, ma come si crede momentaneamente a una viva e conosciuta illusione, e non se ne persuaderà mai nel fondo dell’intelletto. (Lascio i giovani i quali essendo ordinariamente virtuosi, non si convincono mai prima dell’esperienza, che la virtù sia nemmeno rara.) (Zib. 1572-1573, 27 agosto 1821)
Per coloro che “sono fortemente morali”, dunque, la consapevolezza della morte della morale, non si traduce in una rinuncia. E come può la morale trovare un fondamento, se non può più trovarlo in sé stessa? Ci tornano ancora in soccorso gli scritti privati di Leopardi: in un Disegno letterario databile al 1820, nel progettare l’argomento di un libro politico, il poeta dà la risposta: «Necessità di render la virtù cosa amabile non per ragione ma per passione». E allora, e qui si chiude il cerchio, non è la poesia per Leopardi l’unica che può accendere quella passione? La risposta è nelle Operette o, meglio, in una operetta: nel Dialogo di Timandro e di Eleandro, Leopardi farà dire a Eleandro, evidente portavoce dello stesso autore: «Se alcun libro morale potesse giovare, io penso che gioverebbero massimamente i poetici: dico poetici, prendendo questo vocabolo largamente; cioè libri destinati a muovere la immaginazione; e intendo non meno di prose che di versi».
