Pietro Bembo e le Prose della volgar lingua
2.1.2 Le Prose: introduzione all'opera
La seconda edizione delle Prose viene pubblicata a Venezia nel 1538 dall’editore forlivese Francesco Marcolini.
Nonostante l’enorme fortuna delle Prose e il ruolo rivestito da questo testo nella codificazione linguistica e letteraria italiana, l’opera bembiana è comunemente conosciuta attraverso un titolo non d’autore. Prose della volgar lingua, come osservato da Giuseppe Patota (vd. Patota 2017, Capitolo terzo), non compare in nessun luogo del testo riconducibile a Bembo, ma si deve a Benedetto Varchi, curatore dell’edizione torrentiniana delle Prose, che si riferisce all’opera con il titolo Le prose della volgar lingua nella lettera dedicatoria a Cosimo de’ Medici.
Il titolo Prose di monsignor Bembo nel frontespizio della seconda edizione riprodotta in figura rappresenta una novità dell’edizione Marcolini, e verrà abbandonato nell’edizione successiva che, come la prima, sarà priva di frontespizio.
Il titolo d’autore, corredato dall’indicazione dell’edizione, si legge, invece, sul verso del frontespizio: Delle prose di M. Pietro Bembo nelle quali si ragiona della volgar lingua scritte al cardinale de Medici che poi è stato creato a sommo pontefice et detto Papa Clemente settimo divise in tre libri. Edition seconda.
La scelta del titolo - già presente nella princeps del 1525 e riproposto invariato, salvo per l’indicazione della seconda edizione - fornisce utili indizi in merito alla vicenda compositiva dell’opera.
Le Prose non sono il primo esempio di grammatica: già nel XV secolo, Leon Battista Alberti aveva scritto una Grammatica della lingua toscana (1440) e, con qualche anno di anticipo sulla princeps delle Prose, erano uscite le Regole grammaticali della volgar lingua (1516) di Giovan Francesco Fortunio – pubblicate in un’edizione commentata da Brian Richardson nel 2001 (Richardson 2001) – che Bembo era stato accusato di aver plagiato (per la ricostruzione della vicenda, vd. Patota 2017, Capitolo secondo) e con cui l’autore entra implicitamente in polemica in alcuni punti delle Prose (cfr. per esempio, Dionisotti 1966, p. 192, n. 1; p. 233, n. 12). La dedica al cardinale de’ Medici - già diventato pontefice nel 1523 - e la datazione della lettera dedicatoria al 1515 (suggerita dal fatto che Bembo, nella lettera, scrive che Giuliano è, in quel momento, duca di Nemours) costituiscono, dunque, un artificio di cui l'autore si serve per rivendicare l'anteriorità della propria opera - i cui primi due libri, del resto, erano già stati composti nel 1512 - rispetto alle Regole del Fortunio.
La marca editoriale di Marcolini, con la figura allegorica del Tempo che afferra la Verità aggredita dalla Menzogna, come rileva Giuseppina Zappella (Zappella 1986) nel suo studio dedicato alle Marche di editori e tipografi italiani del Cinquecento, è emblematica del clima dogmatico e censorio che percorre il Cinquecento. In questa variante della marca, l’allegoria della Verità è ulteriormente enfatizzata dal motto Veritas filia temporis, tratto dalle Notti Attiche di Gellio, all’interno della cornice ovale.
Marcolini avvia la propria attività editoriale a Venezia a partire dal 1534, appoggiandosi al tipografo Giovanni Antonio Nicolini da Sabbio, e, dall’anno successivo, attrezza la propria tipografia. L’analisi del catalogo marcoliniano svolta da Amedeo Quondam rivela tendenze originali del progetto editoriale di Marcolini nel quadro del fecondo panorama librario della Venezia del primo XVI secolo: Marcolini non è un editore generalista, è responsabile di un catalogo “militante”, che vede per protagonisti un gruppo di autori uniti da un progetto culturale condiviso (Quondam 2009, pp. 127-133).
Le edizioni marcoliniane si distinguono per l’attenzione dedicata alla progettazione grafica, e hanno un certo influsso sullo sviluppo del libro illustrato, in particolare grazie a un’opera che vede Marcolini stesso nelle vesti di autore, le Sorti intitolate giardino d’i pensieri, un libro ludico corredato da cinquanta xilografie (Parlato 2009, pp. 149-67). Questo testo, insieme a una sezione cospicua del catalogo marcoliniano, costituito per più di un quarto dalle opere di Pietro Aretino, sarà incluso nell’Index librorum prohibitorum del 1559, che avrà avuto sicuramente un peso nella limitata fortuna dell’editore (vd. Procaccioli 2009, pp. 11-38).