Pietro Bembo e le Prose della volgar lingua
2.1.3 Variazione linguistica e scrittura
[…] che non solamente in ogni general provincia propriamente et partitamente dall’altre generali provincie si favella; ma anchora in ciascuna provincia si favella diversamente; et oltre acciò esse stesse favelle così diverse alterando si vanno et mutando di giorno in giorno, maravigliosa cosa è a sentire quanta variazione è hoggi nella volgar lingua pur solamente, con la qual noi et gli altri Italiani parliamo; et quanto è malagevole lo eleggere et trarne quello essempio, col quale più tosto formar si debbano, et fuori mandarne le scritture (Prose 1 I, c.IIv).
Questo breve passo tratto dalle pagine introduttive al Primo Libro riassume i punti cruciali della riflessione linguistica di Bembo. Il ruolo giocato dalla variazione nel processo di codificazione del linguaggio letterario, perfettamente espresso nell’espediente che dà origine al dialogo in 1 II - in cui è una parola pronunciata da Giuliano per indicare il vento di tramontana, rovaio, che, sconosciuta agli altri interlocutori, dà inizio della conversazione sul volgare - è ribadito fin dall’incipit dell'opera, nella prima delle tre lettere dedicatorie al cardinale Giulio de’ Medici. In primo luogo, viene espressa una concezione negativa della variazione linguistica, vista come causa di una «fatica» nel parlare e, soprattutto, nello scrivere, che gli uomini devono sopportare. Inoltre, si delinea implicitamente la tesi che Bembo affiderà al fratello Carlo: la lingua volgare parlata dagli italiani è segnata da un’instabilità talmente profonda da impedire di trarre dal parlato un modello percorribile nella lingua scritta.
Se l’obiettivo dello scrittore è trasmettere un messaggio che resista all’azione del tempo, allora la soluzione più appropriata consiste in una lingua regolata, stabile, lontana dagli eccessi della lingua popolare e del parlato:
la quale [la fatica delle scritture] perciò che a più largo et più durevole fine si piglia per noi; è di mestiero che da noi si faccia etiandio più perfettamente, conciosiacosa che ciascun, che scrive, d’esser letto disidera dalle genti non pur, che vivono; ma anchora che viveranno: dove il parlare da picciola loro parte, et solo per ispazio brevissimo si riceve […] (Prose 1 I, c.IIv).
Bembo presenta, quindi, la discussione sulla lingua tra il fratello, Giuliano de’ Medici, Ercole Strozzi e Federico Fregoso come un contributo per quanti vorranno dedicarsi allo studio della lingua volgare, e lascia spazio al dialogo tra gli interlocutori.