Il potere delle parole: il "Decameron" tra filologia e censura
3.3 La fortuna del Decameron: dal Tre al Cinquecento
Nel Trecento, il Decameron ha un successo immediato. Oggi parleremmo di un best seller, letto da un pubblico variegato – mercanti, funzionari, aristocratici – e imitato in Italia e in Europa, come testimoniano ad esempio i Canterbury Tales (1390 circa) dell’inglese Geoffry Chaucer. L’opera piacque anche a Francesco Petrarca, pur con qualche riserva. Infatti, il poeta apprezzava i racconti seri e moralmente virtuosi del Decameron, ma ne rifiutava le componenti più frivole: ne è prova la sua riscrittura in latino del racconto di Griselda (X 10), tra i più austeri dell’opera.
Nel Quattrocento, la fortuna dell’opera è meno prorompente. Talvolta, sull’esempio di Petrarca, gli umanisti traducevano alcune novelle, ma di Boccaccio preferivano in genere le opere latine di argomento erudito. Solo sulla fine del XV secolo, il Decameron torna ad affermarsi insieme al volgare, specialmente in Toscana.
La consacrazione definitiva giunge nel Cinquecento, quando tra le corti italiane si infiamma il dibattito attorno alla questione della lingua. Ad affermarsi è la proposta di Pietro Bembo (1470-1547), esposta nelle Prose della volgar lingua (1525): la norma da seguire è l’italiano letterario del Trecento, in particolare Petrarca per la poesia e Boccaccio per la prosa. Pertanto, nel XVI secolo il Decameron diviene oggetto di emulazione e di studio in tutta Italia, facendo rifiorire il genere novellistico e producendo testi di grammatica e retorica. Tuttavia, alla metà del secolo, l’opera deve fare i conti con un evento determinante per la storia culturale d’Italia e d’Europa: la Controriforma cattolica.
