Il potere delle parole: il "Decameron" tra filologia e censura
2.3 La ricezione quattrocentesca
Nel Quattrocento il capolavoro di Boccaccio conosce una fortuna discontinua. La generazione di Leonardo Bruni (1370-1444) non mostra grande entusiasmo per l’opera nel suo complesso, preferendo metterne in risalto gli aspetti più eruditi. Così, nel 1438, lo stesso Bruni traduce in latino la novella di Tancredi e Ghismonda (IV 1), rinnovando l’esempio petrarchesco. La medesima pratica è ripresa sul finire del secolo da Filippo Beroaldo il Vecchio (1453-1505), che volge in distici elegiaci latini la stessa novella; e ancora, nel 1509, da Matteo Bandello (1485-1561), che traduce in latino la storia di Tito e Gisippo (X 8).
Per tornare a occupare una posizione di spicco nel panorama letterario, il Decameron dovrà aspettare la rivalsa del volgare nella seconda metà del Quattrocento e la sua definitiva affermazione come lingua d’arte nel secolo successivo. A prova di ciò si ricordino i giudizi positivi sull’opera di Lorenzo de’ Medici nel suo Comento e di Poliziano nei Nutricia, che si inseriscono in un più ampio dibattito attorno a questioni di carattere stilistico e linguistico. I molti incunaboli del Decameron – circa 11 edizioni dopo la princeps del 1470 (U. Ruzzo, 2013) – confermano il successo che l’opera riacquista in questo periodo.

