Il potere delle parole: il "Decameron" tra filologia e censura
Esemplificativi sono i casi in cui Salviati agisce per modificare la visione dell’Amore nel Decameron, dove emerge come forza naturale a cui ogni essere vivente è inevitabilmente soggetto. Come ormai assodato dalla critica, esso rappresenta con l’Ingegno e la Fortuna uno dei temi cardine dell’opera, variamente declinato e discusso dalla brigata e nelle novelle stesse.
Il primo significativo intervento di Salviati è offerto dal Proemio. Qui, le ragioni del Decameron sono spiegate in prima persona dall’Autore, che ovviamente non va fatto coincidere con l’autore empirico Giovanni Boccaccio. Come le destinatarie ideali della propria opera, cioè le donne afflitte d’Amore, anche l’Autore ha sofferto gli strali di Cupido, ma ha trovato ristoro nei «piacevoli ragionamenti d’alcuno amico». Inoltre, a differenza delle donne, egli ha potuto alleviare i propri affanni grazie alle molte attività di svago generalmente offerte agli uomini: «l’andare attorno, udire e veder molte cose, uccellare, cacciare, pescare, cavalcare, giucare, o mercatare». Dunque, l’Autore ha deciso di «raccontare cento novelle o favole o parabole o istorie» (Proemio, BIBIT) per dimostrare gratitudine e offrire conforto a chi lo ha meno. Così, le donne potranno liberarsi dalle proprie pene traendo diletto e insegnamento dal libro, ricco di esempi positivi da imitare e di esempi negativi da fuggire. Conclude Boccaccio, nella versione censurata:
Il che se avviene (che voglia Iddio che così sia) a lui ne rendano grazie, il quale liberandomi da * legami, m’ha conceduto il poter attendere a’lor piaceri (ed. Salviati, c. **8r).
L’intervento di Salviati, di precisione chirurgica, modifica in modo determinante la chiusura del Proemio. Nelle moderne edizioni critiche – così come nella giuntina del ’27 e persino nell’edizione dei Deputati – il passo originale recitava:
Il che se avviene, che voglia Idio che così sia, a Amore ne rendano grazie, il quale liberandomi da' suoi legami m'ha conceduto il potere attendere a' lor piaceri (Proemio, BIBIT).
Nella propria “rassettatura”, Salviati destituisce Amore della potestà che esercita sull’innamorato Autore. Pertanto, se questo ha potuto dedicarsi alla propria opera e se le donne hanno potuto trarne qualche utilità, non è all’Amore che bisogna rendere grazie, ma a Dio, a cui ci si riferisce con il pronome personale lui in funzione di ripresa anaforica. Coerentemente, l’Autore non è liberato dai «suoi legami», che varrebbe ‘dai legami di Dio’, bensì è sciolto «dai * legami», cioè i ‘i legami d’Amore’ di cui finora si è discusso nel Proemio.
L’accostamento nella stessa proposizione tra il Dio cristiano e Amore, personificato come divinità, doveva suonare eccessivamente profano al revisore fiorentino, che invece ribadisce in modo chiaro il giusto ordine gerarchico: Dio è sopra ogni cosa e ha piena autorità sull’attività di Amore e dello scrittore, così come di ogni altro uomo. Pertanto, è a Lui – Salviati lo scriverebbe oggi con la maiuscola – che bisogna rendere grazie.
