Giacomo Leopardi e il progetto delle "Opere"
3.5. La lingua: il vago e il pellegrino
Anche dal punto di vista della lingua, Leopardi ricerca un rinnovamento che non sia uno strappo con la tradizione, cerca che rappresenti uno scarto rispetto al presente. La lingua a cui arriva nei Canti è frutto di una lunga elaborazione teorica. Nello Zibaldone tra il 1820 e il 1821 Leopardi riflette sulla differenza tra i termini, le voci della scienza, e le parole:
Le parole come osserva il Beccaria (trattato dello stile) non presentano la sola idea dell’oggetto significato, ma quando più quando meno immagini accessorie. Ed è pregio sommo della lingua l’aver di queste parole. Le voci scientifiche presentano la nuda e circoscritta idea di quel tale oggetto, e perciò si chiamano termini perchè determinano e definiscono la cosa da tutte le parti. Quanto più una lingua abbonda di parole, tanto più è adattata alla letteratura e alla bellezza ec. ec. e per lo contrario quanto più abbonda di termini, dico quando questa abbondanza noccia a quella delle parole, perchè l’abbondanza di tutte due le cose non fa pregiudizio. (Zib. 109-110)
Le parole fanno la lingua della poesia, che non rappresenta la realtà, ma la “finge”, ne restituisce un’immagine senza limiti e ineffabile.
Negli idilli questo si traduce in una ricerca di un lessico più comune, nobilitato dalla ricerca del «vago», mentre si evita la componente erudita, nelle Canzoni la ricerca di una lingua «pellegrina», che non lasci indifferente il lettore, che sottragga le parole alla banalizzazione dell’uso, si traduce nell’uso di termini ed espressioni antiche o rare, di latinismi e anche di una complessità sintattica che crea, appunto, uno stile ardo e lontano dall’uso.