Pietro Bembo e le Prose della volgar lingua

2.1.14 L'edizione

Nonostante l’importanza di Francesco Marcolini nel panorama editoriale del XVI secolo e il pregio delle edizioni da lui prodotte, la seconda edizione delle Prose presenta diverse criticità, tra cui errori interpuntivi, mancata divisione delle parole, errori nella denominazione dei titoli correnti e problemi di uniformità, come la segnalazione incostante degli a-capo. L’alternanza nella collocazione degli ordinali nella denominazione dei libri [Primo Libro; Libro Secondo; Terzo Libro], che si può osservare anche in questa copia delle Prose, è, invece, già presente nel testo della princeps (cfr. Patota 2017, p. 46).
Anche per questi limiti dell’edizione 1538, Bembo, nell’allestimento della successiva edizione delle Prose, adotta come testo di riferimento quello della princeps (cfr. Sorella 2013; Bertolo, Cursi, Pulsoni 2018).

Dall’edizione Tacuino all’edizione Torrentino

Le vicenda editoriale delle Prose si snoda attraverso tre edizioni: la princeps, pubblicata nel 1525 presso l’editore veneziano Giovanni Tacuino, l’edizione Marcolini (Venezia 1538), che presenta alcune correzioni d’autore, e, infine, la terza e ultima edizione, pubblicata postuma a Firenze nel 1549, presso Lorenzo Torrentino, con significative aggiunte e modifiche in parte dovute al figlio di Bembo, Torquato, agli esecutori testamentari Carlo Gualteruzzi e Girolamo Querini, e al curatore dell’edizione, Benedetto Varchi.  
Il ritrovamento di una copia della princeps, con le postille autografe dell’autore, studiata da Fabio Massimo Bertolo, Marco Cursi e Carlo Pulsoni, ha permesso di ricostruire il testo delle Prose secondo l’ultima volontà dell’autore. La monografia pubblicata dagli studiosi nel 2018 rende conto di tutti gli interventi introdotti nella seconda e nella terza edizione dell’opera, rintracciabili sulla copia stessa, e permette di distinguere le integrazioni autografe di Bembo da quelle introdotte da Carlo Gualteruzzi e Benedetto Varchi in vista della pubblicazione dell’edizione torrentiniana (Bertolo-Cursi-Pulsoni 2018). 
Un quadro complessivo delle varianti che intercorrono tra la prima e la terza edizione era già ricavabile dall’edizione curata da Dionisotti, che, pur non essendo un’edizione critica, indica in nota i passi corretti, espunti o aggiunti nelle tre edizioni delle Prose. Per quanto riguarda l’edizione Marcolini, gli interventi correttori riguardano in particolare il Terzo Libro e consistono soprattutto in aggiunte: in alcuni casi si tratta dell’elaborazione di nuove indicazioni (per esempio, sull’uso poetico delle preposizioni articolate, in 3 XII; sui pronomi atoni di prima e seconda persona singolare e sui gruppi pronominali, in 3 XIII; sull’utilizzo della negazione in 3 LXI), ma, più spesso, Bembo introduce nuovi riscontri testuali, incrementando le citazioni da Petrarca, Boccaccio e Dante, tendenza inaugurata dalla seconda edizione e ancora più presente nella terza, come conferma il più recente studio dedicato al postillato delle Prose (Bertolo-Cursi-Pulsoni 2018, pp. 177-79).
 

Elementi grafici e paragrafematici

A livello grafico e paragrafematico, l’edizione Marcolini testimonia diverse delle novità introdotte da Aldo Manuzio e da Bembo stesso durante il periodo di collaborazione con lo stampatore veneziano, oltre a soluzioni grafiche originali:

 

 

Carattere:

 

  • Le Prose del 1538 sono stampate in carattere corsivo (utilizzato per tutto il corpo del testo) e romano (per titoli, suddivisione dei libri e parole che Bembo analizza nel corso della trattazione).
  • Mentre i caratteri romani – sperimentati per la prima volta da Manuzio nel De Aetna (1495/96) e realizzati dall'incisore Francesco Griffo – erano già diffusi, il corsivo, anche questo attribuito a Griffo, viene introdotto con le edizioni aldine. La prima apparizione del corsivo di Griffo è attestata in una xilografia di Santa Caterina da Siena contenuta nell'edizione delle Epistole del 1500, ma per il suo utilizzo sistematico si dovrà attendere il 1501, con l’edizione in-ottavo di Virgilio. Il corsivo sarà utilizzato stabilmente, per le opere in volgare, a partire dal Canzoniere dato alle stampe nello stesso anno (con il titolo Le cose volgari) e curato da Pietro Bembo (vd. Davies-Harris 2020, pp. 89-93).
  • Marcolini, stando alle notizie riportate da Scipione Casali nei suoi Annali, utilizzava due tipi di caratteri corsivi: l’italico, simile al corsivo aldino, e il cancelleresco, descritto, con riferimento al Manuale tipografico di Bodoni, come “fatto ad immitazione dello scritto, siccome anche oggigiorno si pratica” (Casali 1953, p. XII). Del secondo, disponeva poi di due tipologie, il Garamone - secondo Casali, esclusivo di Marcolini - e il Silvio, utilizzato in diverse edizioni del catalogo marcoliniano, tra cui le Prose (vd. Casali 1953, p. XII; Tavoni 1993). 

Punteggiatura:

  • Come ricorda Neil Harris (Davies-Harris 2020, p. 73), prima del 1494 gli unici segni interpuntivi utilizzati dai tipografi per segnalare le pause erano i due punti e il punto fermo, insieme alla barra obliqua per indicare pause brevi (secondo una convenzione in uso nei manoscritti). Manuzio introduce elementi innovativi anche a livello paragrafematico. Con gli Erotemata (1494-95) di Costantino Lascaris, fa la sua prima comparsa la virgola (negli elenchi), utilizzata poi sistematicamente nelle successive pubblicazioni in greco, in latino (la prima è, di nuovo, il De Aetna) e in volgare.
  • Il punto e virgola appare, ancora una volta e in modo sporadico, negli Erotemata, mentre per il suo utilizzo sistematico si dovranno aspettare il De Aetna e, con un’interruzione di qualche anno, Le cose volgari del 1501. Chiaramente, l’utilizzo dei segni di punteggiatura a quest’altezza temporale non coincide con la norma corrente: il punto e virgola, per esempio, era utilizzato nel Petrarca aldino soprattutto allo scopo di segnalare le «pause enfatiche, in modo più retorico che interpretativo» (Davies-Harris 2020, p. 76). 
  • A Bembo, poi, si deve un’ulteriore innovazione in ambito interpuntivo: l’introduzione dell’«apostrofo separatore» (cfr. Marazzini 2021, p. 221), anche questo già visibile nell’edizione aldina di Petrarca e utilizzato anche nella stampa del 1538.