Pietro Bembo e le Prose della volgar lingua
2.1.6 Quale volgare scegliere?
Soddisfatti i dubbi relativi alle origini del volgare, Ercole Strozzi è afflitto da un altro dilemma, che rappresenta il punto cruciale della riflessione delle Prose: di fronte alla variazione che caratterizza i volgari in uso in Italia, a quale rifarsi nella scrittura letteraria?
Nella prima metà del XVI secolo, il dibattito sulla “questione della lingua” è molto acceso, con proposte agli antipodi del classicismo bembiano. A ridosso della pubblicazione della princeps delle Prose, Giovan Giorgio Trissino espone la propria teoria linguistica - che passa anche attraverso una riforma ortografica - esposta nella Ɛpistola delle lettere nuωvamente aggiunte ne la lingua Italiana, anch’essa dedicata a papa Clemente VII. Nel 1529, la pubblicazione del dialogo Il castellano sancisce la proposta cortigiana di Trissino, sostenitore di una lingua eclettica e aperta a modelli letterari plurimi, sulla scorta del De vulgari eloquentia dantesco, diffuso nel Cinquecento grazie alla traduzione di Trissino stesso. L’anno precedente (1528) aveva visto la pubblicazione del Cortegiano di Castiglione, fautore di una lingua parlata, «commune», ovvero sovraregionale, e contemporanea.
Una delle proposte che caratterizzano questo dibattito è apertamente confutata da Bembo nel dialogo: quella di Vincenzo Colli, detto il Calmeta, sostenitore anch’egli della soluzione cortigiana, impraticabile agli occhi dell’autore delle Prose sia per l’eclettismo linguistico a essa intrinseco, sia per l’assenza di una codificazione scritta (Prose 1, XIII-XIV).
Individuata la migliore lingua volgare nel fiorentino, si scontrano due posizioni: quella di Carlo Bembo e quella di Giuliano de’ Medici che, a differenza del suo interlocutore, si discosta dall’esempio del fiorentino scritto del XIV secolo, proponendo – secondo una linea inaugurata dall’esperienza dell’Umanesimo volgare – di rifarsi al fiorentino parlato dell’uso contemporaneo:
così né più né meno pare che a noi si disconvenga lasciando questa del nostro secolo il metterci a comporre in quella del loro: che si potrebbe dire M. Carlo, che noi scrivere volessimo a morti più che a vivi. Le bocche acconcie a parlare ha la natura date a gli huomini affine che ciò sia loro de loro animi, che vedere compiutamente in altro specchio non si possono, segno et dimostramento [...] Per che sì come voi et io saremmo da riprendere; se noi a nostri figliuoli facessimo il Tedesco linguaggio imprendere più tosto che il nostro: così medesimamente si potrebbe peraventura dire che biasimo meritasse colui; il quale vuole innanzi con la lingua degli altri secoli scrivere, che con quella del suo (Prose 1 XVII, c.XXv)