Pietro Bembo e le Prose della volgar lingua

2.1.7 La tesi di Carlo

D’altro canto, per Carlo la lingua scritta è l’unica via praticabile, al punto che il possesso naturale della lingua fiorentina viene visto non come un vantaggio, ma come un ostacolo, a causa del possibile rischio di contaminazione con le movenze del parlato. Questo atteggiamento nei confronti del fiorentino parlato sarà il motivo dell’ostilità di Firenze alle teorie bembiane, che riusciranno a diffondersi anche nella città toscana – anche se con delle modifiche sostanziali – grazie a Benedetto Varchi e alla revisione della proposta bembiana condotta ne L’Hercolano, pubblicato nel 1570. 

Alla fine del Primo Libro, Carlo spiega chiaramente perché sia da preferire una lingua scritta e antica:

La lingua delle scritture Giuliano non dee a quella del popolo accostarsi; se non in quanto accostandovisi non perde gravità, non perde grandezza: che altramente ella discostare se ne dee et dilungare [...]. Il che aviene perciò, che appunto non debbono gli scrittori por cura di piacere alle genti solamente, che sono in vita quando essi scrivono [...]; ma a quelle anchora, et peraventura molto più, che sono a vivere dopo loro [...]. (Prose 1 XVIII, c.XXIr).

La proposta di Bembo non è semplicemente arcaizzante: la lingua degli scrittori antichi deve essere imitata se e quando raggiunge risultati più alti rispetto a quella contemporanea. Il fiorentino degli scrittori del Trecento rappresenta, per Bembo, il punto di massimo sviluppo della lingua volgare e, di conseguenza, il modello di riferimento per gli scrittori contemporanei:

Hora mi potreste dire, cotesto tuo scriver bene onde si ritra egli, et da cui si cerca: hass’egli sempre ad imprendere da gli scrittori antichi et passati? Non piaccia a Dio sempre Giuliano; ma si bene ogni volta, che migliore et più lodato è il parlare nelle scritture de passati huomini; che quello che è o in bocca o nelle scritture de vivi (Prose 1 XIX, c.XXIIv).

La proposta linguistica formulata nelle Prose – basata sull’imitazione di un modello estetico bipartito – sembra essersi già concretizzata nel 1512 e presenta delle analogie con un altro testo bembiano, coevo alla stesura dei primi due libri dell’opera (vd. Dionisotti 1966, pp. 33-40): l’epistola De imitatione (1513), risposta polemica a una lettera di Pico della Mirandola del 19 settembre 1512. Qui, Bembo rivendica la dignità dell’imitazione della tradizione letteraria passata sull’invenzione, definendo un modello estetico bipartito: Cicerone (per la prosa) e Virgilio (per la poesia), in quanto esponenti della più alta tradizione linguistica e letteraria latina, indicano la strada da seguire. In continuità con la riflessione elaborata nelle Prose, Bembo elegge una lingua regolata, lontana da contaminazioni, affermando la centralità delle ragioni stilistiche e retoriche nel giudizio della scrittura.