Pietro Bembo e le Prose della volgar lingua
2.2.4 Quale volgare scegliere?
Risolto il dubbio che coinvolge il latino, il volgare e il rapporto tra le due lingue, gli interlocutori si addentrano nel dibattito sulla lingua volgare, per individuare il modello migliore da adottare nella scrittura. Bembo non è l’unico letterato a partecipare al dibattito in questi anni: la «questione della lingua», già aperta nei secoli precedenti, trova un forte impulso nel Cinquecento, ricco di interventi che prospettano soluzioni molto diverse tra loro, tra cui quelle di Baldassarre Castiglione, Giovan Giorgio Trissino, e, qualche decennio più tardi, di Benedetto Varchi, curatore, dopo la morte di Bembo, della terza edizione delle Prose.
Nelle Prose si scontrano, in particolare, due tesi: quella di Giuliano, secondo cui gli scrittori devono cercare il proprio modello linguistico nel fiorentino dell’uso contemporaneo, e quella di Carlo, che sostiene che il fiorentino letterario degli scrittori del Trecento costituisca l’esempio migliore a cui rifarsi. Carlo spiega sia perché sia da preferire la lingua fiorentina, sia perché vada imitata quella scritta.
Quanto al primo punto, la lingua toscana viene presentata come l’espressione più alta della lingua volgare: «ella, da molti suoi scrittori di tempo in tempo indirizzata, è ora in guisa e regolata e gentile, che oggimai poco desiderare si può più oltra». Inoltre, secondo Bembo, tanto più una lingua ha scrittori illustri e celebrati, quanto più è “bella” e “buona” e, sulla base del numero e della fama degli scrittori fiorentini, nessuna lingua volgare risulta superiore. (Prose 1 XV).
La seconda questione viene, invece, chiarita nelle pagine successive, in cui Carlo si rivolge a Giuliano spiegandogli le sue ragioni:
[…] non debbono gli scrittori por cura di piacere alle genti solamente, che sono in vita quando essi scrivono, come voi dite; ma a quelle anchora, e peraventura molto più, che sono a vivere dopo loro […]. Et perciò che non si può per noi compiutamente sapere quale habbia ad essere l’usanza delle favelle di quegli huomini, che nel secolo nasceranno, che appresso il nostro verrà; et molto meno di quegli altri, i quali appresso noi alquanti secoli nasceranno; è da vedere che alle nostre composizioni tale forma e tale stato si dia; che elle piacer possano in ciascuna età, et ad ogni secolo ad ogni stagione esser care […] (Prose 1 XVIII, cc. XXIr-XXIv).
L’obiettivo che Bembo vuole raggiungere con le Prose è definire una lingua stabile, «regolata», che non sia esposta ai continui cambiamenti a cui va incontro la lingua parlata, e possa essere imitata, e compresa, anche dagli scrittori e dai lettori successivi. Tra gli scrittori fiorentini del Trecento, vengono presi a modello, per la lingua poetica, Petrarca e, per la prosa, Boccaccio, in particolare la lingua della cornice del Decameron (non quella delle singole novelle, che spesso accolgono caratteristiche della lingua popolare).